Itinerari siciliani – Colomba Bianca raccontata da Marisa Leo e Mattia Filippi

I t i n e r a r i s i c i l i a n i C o l o m b a B i a n c a r a c c o n t a t a d a M a r i s a L e o e M a t t i a F i l i p p i

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Di Massimo Casali e Susanna Schivardi con la collaborazione di Lorenzo Martorana Colomba Bianca: nel cuore dell’agro di Trapani, una comunità di viticoltori proiettata nel futuro.
Di Massimo Casali e Susanna Schivardi con la collaborazione di Lorenzo Martorana Colomba Bianca: nel cuore dell’agro di Trapani, una comunità di viticoltori proiettata nel futuro.

 

Alla scoperta di una delle più grandi cooperative del vino in Sicilia, leader nella produzione di vino biologico in Europa. Una delle realtà più interessanti nel panorama enologico dell’Isola, con numeri e riconoscimenti che non passano inosservati.

Intervistiamo in videoconferenza la giovanissima Marisa Leo, responsabile marketing e comunicazione. Per raccontare il mondo di Colomba Bianca si potrebbe iniziare con una bella citazione di Gesualdo Bufalino: “Le Sicilie sono tante, non finirò di contarle. Vi è la Sicilia verde del carrubo, quella bianca delle saline, quella gialla dello zolfo, quella bionda del miele. Qui tutto è mischiato, cangiante, come nel più composito dei continenti”.

L’idea non è nostra ma del team di comunicazione di Colomba Bianca, guidato da Marisa Leo, in collaborazione con l’ufficio stampa Gran Via. Proprio queste poche righe sembrano racchiudere un affresco ideale per descrivere un’isola portentosa e plurale, che la stessa Marisa ama raccontare attraverso la sua esperienza diretta. “L’idea di una cooperativa nasce nel 1970, quando i tre soci fondatori, Gaetano Taschetta, Giuseppe Chirco e Ignazio Oliveri si imbattono inaspettatamente nei pressi di Salemi, in una colomba bianca simbolo di buon auspicio e subito riutilizzata per il nome della nascente realtà, di cui i tre stavano parlando proprio quel giorno”.

A porre l’accento sull’idea di una cooperativa che comprendesse una comunità di piccoli viticoltori locali è invece Mattia Filippi, uno degli enologi di Colomba Bianca, nato in Trentino e con una grande esperienza maturata in questo settore. “Il nostro Paese – racconta l’enologo della cooperativa – è indietro in questo percorso, in Alto Adige invece le cooperative sono più frequenti, riescono infatti ad avere un potenziale di vini, di territorio e di espressione invidiabili per qualsiasi produttore privato, che deve essere bravo e fortunato ad avere le uve giuste al posto giusto”. L’Italia è matura per questo salto di qualità, ma il mercato sembra essere lontano da una visione che proprio i canali di comunicazione possono promuovere, facendo leva su un progetto che le aziende dovrebbero prendere in seria considerazione.

Un continente vitivinicolo

Oggi il presidente della Cooperativa Colomba Bianca è Leonardo Taschetta, uomo di grande visione imprenditoriale, circondato da persone che accompagnano e portano avanti fedelmente le sue idee. Una realtà che, a guardare i numeri, sembra un piccolo impero del vino: 2480 viticoltori, 6900 ha di vigneti, 1800 ha di biologico e 6 cantine, per un team di sette enologi coordinato sapientemente da Carlo Ferracane, capo enologo e direttore tecnico.

Il tutto compreso in un territorio estremamente variegato: un vero e proprio continente vitivinicolo racchiuso perlopiù nel cuore dell’agro di Trapani, la provincia più vitata d’Europa; dalle campagne di Vita – con boschi, torrenti e terreni gessosi – fino alla zona costiera di Mazara del Vallo con caratteristiche pedoclimatiche più simili all’Africa del nord. Qui Colomba Bianca custodisce e valorizza un patrimonio ampelografico composto da oltre 32 varietà autoctone e internazionali, da cui nascono vini identitari e fedeli al territorio. In particolare, alcune varietà autoctone come Perricone e Grillo sono al centro di un percorso di valorizzazione, mentre varietà internazionali come Chardonnay e Cabernet Sauvignon, trovano espressioni del tutto originali in questo angolo di Sicilia, grazie alle particolari caratteristiche pedoclimatiche e al meticoloso lavoro in vigna. Non a caso Mattia ci tiene a sottolineare la grandezza e la sapienza degli agricoltori e dei viticoltori siciliani.

“Viaggiando in tutto il mondo, dalla Napa Valley alla Romania, non ho mai incontrato nessuno che sapesse lavorare la terra come qui in Sicilia, in situazioni estreme come il dry farming che qui ha avuto una sua realtà ante litteram, considerando le temperature proibitive che si sono riscontrate anche in anni passati, quando ancora non si parlava di cambiamento climatico”. I siciliani sono già abituati a temperature quasi africane, “la raccolta avviene anche a fine settembre e inizi ottobre, e proprio le qualità che maturano in condizioni meno torride, grazie ad una coltivazione sapiente, riescono ad essere esaltate, attraverso vini eleganti e poco opulenti”. Qui troviamo un grande indicatore di terroir se pensiamo al Catarratto, di cui, come ci dice l’enologo, “esistono varie tribù di cloni e biotipi diversi, selezionati sul territorio”.

2480 Vigneron: il cuore pulsante della cooperativa

Ogni vendemmia è preceduta da un attento lavoro di monitoraggio, sviluppato dal team di enologi di Colombia Bianca. Nel corso dell’ultimo anno, la raccolta di oltre 1.500 campionature di uve, ha consentito di stabilire l’effettivo stato di maturazione delle stesse per ogni singola varietà e per ciascun vigneto. Un percorso di condivisione e studio del territorio viticolo più esteso d’Europa, in grado di orientare il sistema produttivo di Colomba Bianca verso una viticoltura moderna ed allineata ai temi più attuali della sostenibilità e della tracciabilità delle uve.

“Un ricchissimo patrimonio, sviluppato nel corso degli anni, che condividiamo con i nostri viticoltori”, sottolinea Marisa Leo che ci spiega come la politica della cooperativa nei confronti dei soci sia improntata alla massima trasparenza: “È importante per noi dare la giusta retribuzione a ciascuno di loro, valorizzando in particolare chi si impegna a perseguire la via del biologico”. Già da tempo è infatti questa la politica della cooperativa che, con il suo 26% di produzione certificata, è entrata a pieno titolo a far parte delle realtà biologiche più importanti d’Europa, ponendosi come obiettivo quello di arrivare al 50% di produzione in bio. L’azienda normalmente indica alle cantine le direttive da seguire. “Durante la vendemmia – ci specifica Marisa – avviene un monitoraggio costante per la classificazione delle uve, e ciò spinge i viticoltori a ottenere uve di qualità sempre maggiore”. Corsi e aggiornamenti per i soci sono all’ordine del giorno, e già da tempo, grazie ad un’idea di Mattia Filippi, socio fondatore della società Uva Sapiens, viene divulgato il resoconto annuale, ‘Le Uve raccontano’, prezioso manuale disponibile anche online con analisi di tipo qualitativo, ambientale, agronomico e climatico. “Un patrimonio di informazioni standardizzate da condividere con i giornalisti, i viticoltori e i winelovers”.

La filosofia delle cantine cooperative, abbastanza nuova come abbiamo detto nel territorio italiano, si articola in maniera simile anche nel caso dei vini spumanti. “La logica è quella di portare i mosti, cioè la primissima lavorazione dell’uva – ci specifica Mattia – dalle cantine, che sono in prossimità dei vigneti, alle sedi centrali, sottoponendo l’uva ad un viaggio il più breve possibile, per vinificare immediatamente, rispettando la materia prima”.

Prestigiose etichette d’autore, eleganti e ricercate, che si distinguono per un approccio moderno e innovativo delle lavorazioni in cantina. Le linee sono numerosissime e tutte molto ricche, Marisa ce ne offre un assaggio, mostrandoci la bottiglia di Vitese. “Questo per esempio è un prodotto che rappresenta l’anima di Colomba Bianca; abbiamo voluto esaltare questo vino attraverso una bottiglia vintage, con un nome che ricorda proprio la pianta tipica a basso fusto di queste zone”. (in foto)

Tra le linee più prestigiose, che possono raccontare in parte la storia di quest’isola magnifica, noi vi presentiamo la linea Resilience, figlia di un progetto di Vigna Vecchia che Mattia Filippi ci va a raccontare, svelando uno scenario storico che in questo caso il vino sa affrescare magnificamente.

“L’idea, nata dalla collaborazione con un grande gruppo di lavoro – spiega il nostro ospite – si potrebbe definire come un progetto di filiera, un modo nuovo per dare valore al territorio, ma anche a tutto quello che esiste tra l’ambiente e il prodotto finale”. La ricerca parte nel 2017, dai territori del Belice, “proprio in quei luoghi martoriati dal terremoto del gennaio ’68, quando viaggiando per le campagne trovavi paesi fantasma; Vita, Salemi, Salaparuta, sembravano un set di un film western e, a quel tempo, agli agricoltori che non erano potuti andare via, non rimaneva altro che coltivare la terra; per questo, come abbiamo trovato nei registri, piantarono nuovi vigneti già nella primavera di quell’anno”. Da qui il nome del progetto Vigna Vecchia, “da cui trae origine la linea Resilience, quale definizione migliore per riportare alla memoria quel periodo di resilienza e di sopportazione di fronte agli eventi naturali, un po’ come sta accadendo in parte a noi in questo particolare momento storico. Lanciato nel 2018, il progetto ci ha visto dediti a questa selezione maniacale di vigne di almeno 50 anni, e alla cura delle uve che necessitano di strutture adatte al contesto estremo in cui si trovano”. L’obiettivo è stato quello di vinificare, separatamente, cinque varietà autoctone: Lucido, Inzolia, Perricone e i più noti Grillo e Nero D’Avola.

Degustazione

Arriviamo quindi al momento della degustazione e Mattia Filippi ci incanta con la spiegazione dei tre vini che andiamo oggi a presentarvi.

Partiamo dallo spumante. Uno chardonnay 100% chiamato 595, numero che indica l’altitudine della vigna. La passione di Mattia per le bollicine è evidente, le sue conoscenze e un’ottima materia prima fanno di questo 595 un vino raffinato. “Abbiamo surrogato – ci spiega l’enologo – la latitudine con l’altitudine andando a trovare terreni gessosi; avremmo anche potuto provare altri vitigni, ma preferire lo chardonnay ha significato per noi operare una scelta di stile e di campo”.

La lavorazione è particolarmente attenta, per non dire ortodossa. Uva raccolta a mano e disposta in cassette con grande attenzione al frazionamento delle cuvée; poi si procede a una pressatura soffice in orizzontale. Riposa circa 48 mesi in attesa della sboccatura. Nel bicchiere questo vino ha un perlage fine e persistente, con un profumo di crosta di pane e spiccata mineralità, non mancano infine accenni dolci di vaniglia. Al gusto minerale si aggiunge un’ottima freschezza amalgamata con i sentori più morbidi della pasticceria. Al palato rimane cremoso e molto persistente, da avvicinare ad un ottimo salmone selvaggio e ad una parmigiana di pesce spada o, perché no, ad un’ottima mozzarella di bufala. Ovviamente può andar bene anche da solo per un aperitivo importante. Un prodotto che richiama alla mente lo champagne, che è l’equilibrio perfetto tra tecnica e innovazione “del resto – ci spiega Mattia – la tradizione non è altro che un’innovazione che ha funzionato, quindi perché non osservarla?”.

Ed eccoci alle due bottiglie della Linea Resilience. Iniziamo dal Lucido, accompagnato da un’etichetta già di per sé veicolo di un valore originale, “un disegno in sintonia con l’idea di artigianalità del prodotto e della sua essenza, con questa tinta nera dall’impatto forte che vuole ricordare il concetto di resilienza”, sottolinea Marisa Leo. Due contrasti che si incontrano in una perfetta simbiosi. “Un modo come tanti – commenta giustamente Mattia Filippi – per dare valore soprattutto a chi la terra la coltiva veramente, mai dimenticarlo”.

Il Catarratto, meglio conosciuto come Lucido, è un vitigno autoctono che in queste zone si esprime ai massimi livelli e la bottiglia che abbiamo in degustazione proviene, come abbiamo detto, da vitigni selezionati. Nel bicchiere appare subito un bel giallo paglierino brillante. Al naso si presenta intenso e complesso, con note di frutta matura e accenni floreali, uniti ad una mineralità ben presente. Al gusto la presenza acida fa da spalla alla frutta matura e alle note di sambuco, rendendolo perfettamente equilibrato.

Lunga la persistenza abbinabile a piatti di pesce del territorio o a crudi di pesce non troppo grassi. Servito a temperatura e magari con un bel tramonto siciliano alle spalle, questo vino è sicuramente ottimo anche da solo. Non fa lavorazione in legno per non subire deviazioni, “l’idea era quella di imbottigliare il vigneto”, ci spiega giustamente l’enologo. Non dimentichiamo che il Catarratto è una varietà molto forte, che si è ben adattata ai climi torridi; esiste in Sicilia già dal seicento e qui esprime tutta la sua bellezza con questo gusto di glicine, zagara e ginestra.

Terminiamo la degustazione con la seconda bottiglia della linea Resilience, stavolta un Perricone, altro vitigno autoctono. Un bel rosso rubino intenso al naso esprime subito la sua complessità. La caratteristica del vitigno lascia la sua impronta con il profumo di amarena, frutti rossi, mora matura, cacao, accenni di spezie e pepe. Passando all’analisi olfattiva ci colpisce subito la sua importanza e la mancata marcatura dei gradi alcoolici che non sono pochi, 14,5. Mattia ci spiega che il Perricone è un’uva che va raccolta perfettamente matura, per questo ci troviamo in bottiglia qualche grado in più che comunque non dispiace, ma anzi in bocca lo completa rendendolo avvolgente e complesso. Al gusto ritroviamo perfettamente le caratteristiche olfattive, ma con una freschezza ben evidente. Lungo e persistente, da poter abbinare a selvaggina o ad una lasagna; ideale anche per un aperitivo con salumi e formaggi stagionati.

Termina qui questo nostro quarto itinerario nella bella terra di Sicilia, da cui ripartiamo per tornare al Nord che ci chiama per raccontare nuove aziende e nuove realtà.
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